Kazakistan: Chiesa esemplare

 

Di don Giorgio Paximadi

 

 

Il Kazakistan?! E dov’è?” Questa è stata la mia reazione quando, alcuni mesi fa, mi hanno chiesto di andare a fare il mio mestiere, cioè a dare corsi di Sacra Scrittura, presso il seminario della Diocesi di Karagandà. In Kazakistan, appunto. Dopo il primo momento di sconcerto…

 

Il Kazakistan è una nazione grande come l’Europa occidentale, pochissimo abitata (circa 16 milioni di persone), quasi completamente pianeggiante (ci sono alcune catene montuose a nord e a sud). Il clima è tipicamente continentale, con estati a più 35° ed inverni a meno 15° costanti, con punte di meno 30°. Circa il 50% della popolazione è kazaka, di stirpe mongolica, mentre il restante è composto da più di cento etnie diverse, frutto avvelenato delle deportazioni staliniane e non solo. Benché il paese sia ricchissimo di risorse naturali (compreso il petrolio), la situazione economica è catastrofica: si parla di una disoccupazione che arriva al 60% e di un reddito medio di 50 dollari mensili.

 

 

La Chiesa cattolica

 

Così informatomi, e per nulla rassicurato, sono partito, con un epico volo della Air Kazakhstan, alla volta di Karagandà, città mineraria nel centro del paese, dove vive la principale comunità cattolica.

La Chiesa cattolica di quella nazione è un esempio chiaro di come la predicazione del Vangelo sia solo in minima misura opera dell’organizzazione ecclesiastica e della burocrazia pastorale che appesantiscono molte delle nostre Chiese occidentali. Cattolici erano i cosiddetti tedeschi del Volga e del Mar Nero, una popolazione originaria della Germania del sud, impiantatasi in Russia all’epoca di Caterina la Grande, che aveva bisogno di maestranze specializzate. Deportati in Siberia ed in Asia centrale a morire a centinaia di migliaia a causa del freddo e della mancanza di cibo, queste persone hanno mantenuto la fede per opera delle donne anziane, le “babushke”, che hanno continuato a battezzare e ad insegnare il catechismo ai bambini. Caduto il comunismo, è venuta alla luce la realtà impressionante di comunità cattoliche molto vive, che si sono subito preoccupate di testimoniare la propria fede. Adesso la città di Karagandà conta circa 5000 cattolici (impossibile sapere quanti siano in tutta l’immensa Diocesi, data l’assoluta mancanza di registri). Per dare un’idea della vitalità di questa Chiesa, basti pensare che in seminario ci sono 25 studenti: un numero incredibile, se rapportato alle percentuali cui siamo abituati noi.

L’incontro

 

La storia di padre Johannes, giovane sacerdote, rettore del seminario, mi sembra significativa per far comprendere un po’ di questa realtà ecclesiale. Nato 33 anni fa in Tagikistan (un po’ più a sud del Kazakistan) da una famiglia di tedeschi del Mar Nero e battezzato da sua nonna, padre Johannes è diventato prete dieci anni fa. Per la sua scelta di entrare in seminario, è stato perseguitato dalla polizia segreta sovietica, che gli prometteva l’impunità in cambio della collaborazione all’attività spionistica ai danni della Chiesa ed è stato quindi costretto alla clandestinità. Dopo la liberazione dal comunismo, tutta la sua famiglia si è trasferita in Germania (la Repubblica Federale Tedesca concede il proprio passaporto ai tedeschi del Volga e del Mar Nero che decidono di trasferirsi nel suo territorio), mentre egli ha deciso di rimanere nei paesi dell’ex U.R.S.S. per servire la Chiesa che usciva dalle catacombe.

Parlando con lui della situazione del suo popolo, mi diceva: «vedi, noi discendenti dei deportati tedeschi, quando eravamo qui, venivamo chiamati “fascisti”, adesso che ci siamo trasferiti in Germania, la nostra “patria storica”, siamo i “russi”».

Sentire un uomo della mia generazione (è un po’ più giovane di me, ma siamo stati ordinati nello stesso anno), esprimersi in questa maniera, è stato un pugno alla bocca dello stomaco, e mi ha fatto comprendere qual è il problema fondamentale di questo paese e di questa Chiesa. Essere privi di storia e di appartenenza è il dramma più grave di un uomo. Il potere comunista è riuscito esattamente in quest’operazione: creare un popolo senza radici, malleabile ad ogni forma di condizionamento. È impressionante vedere come molti kazaki siano pervasi da un grande disprezzo per il paese in cui abitano, e sognino o una “patria storica” nella quale difficilmente potrebbero vivere, oppure un occidente tanto scintillante quanto artificiale.

Chiesa giovane, Chiesa fragile

 

Noi non abbiamo un potere comunista che ci ha ridotto così, con la violenza, ma in fondo corriamo lo stesso pericolo: quello di perdere la cognizione della nostra storia cristiana, che tutto nel nostro paese testimonia. I miei amici kazaki hanno però una grande possibilità, che a noi manca: un passato recente di martirio e di sangue, che li rende più attenti al valore di una fede che noi ormai abbiamo dimenticato.

La Chiesa del Kazakistan è una realtà giovane; come tutte le cose giovani, è insieme fragile ed affascinante. Fragile per la situazione difficilissima in cui vive e perché non ha, come noi, una tradizione di quasi duemila anni di cristianesimo cui appoggiarsi; affascinante per l’entusiasmo missionario e la dedizione di testimonianza che la muove. Per le nostre Chiese, ricche di storia e di tradizione, un contatto con queste realtà, che hanno estremo bisogno del nostro aiuto, può essere l’occasione di recuperare la coscienza di quello che siamo e l’entusiasmo necessario per testimoniarlo.

Così da questo incontro con il seminario della Diocesi di Karagandà è nata una collaborazione che potrà avere esiti interessanti, e comunque un’amicizia che potrà essere di aiuto anche alla vita di fede.